Ingegnere, docente, viaggiatore, sognatore e… artista.
“Essendo per natura fatto di sogni e di curiosità, alla fine, era inevitabile che mi avviassi a percorrere anche questo cammino nella vita”.
Elio Lutri è nato il 23 maggio del 1953 a Lucca, città dove tuttora vive e lavora. Insegna discipline tecniche alle superiori ed è titolare di uno studio di ingegneria civile.
Al di là del lavoro tante passioni: le auto sportive, l’arte, l’architettura. Per anni si è espresso con la fotografia. Ha iniziato in camera oscura con il bianco e nero ed ha proseguito fino all’avvento del digitale, con il quale ha trovato nuovi stimoli.
La grande curiosità di conoscere il mondo lo porta, non appena può, a viaggiare. Un viaggiatore facilmente riconoscibile in qualsiasi angolo del globo: scarpe comode ai piedi, una fida Nikon nelle mani e la solita ed ormai consunta Moleskine in una delle tante tasche. Ad accompagnarlo quasi sempre la moglie Paola, compagna con la quale divide la vita e quella stessa passione dall’ormai lontano 1976.
Si accosta all’arte polimaterica solo nel 2007 e nasce una nuova grande passione. Una passione fatta di studio e di ricerca sulle tematiche, sulle composizioni, sui materiali.
“Per una vita intera ho lavorato per gli ‘altri’. L’ho fatto e continuo a farlo con tutta la dedizione che gli ‘altri’ meritano quando ti devono dare ciò che ti serve per vivere. Alla fine mi sono concesso il regalo di lavorare anche per me. Ed in pochi anni ne è venuto fuori tutto quello che vedete. Tutto sommato, mi voglio bene, perché questo è di gran lunga il più bel regalo che mi potessi fare.”
Nulla è improvvisato o istintivo nei suoi lavori. Tutto è composto con pazienza e senza fretta.
“Mi fido poco della chimica ma molto di più della meccanica. All’incerta stabilità di una colla, preferisco di gran lunga l’eterna sicurezza di una vite. L’importante è trovare, di volta in volta, quella giusta, quella che sappia svolgere il suo ruolo senza pretendere ‘visibilità'”.
“Sono il peggior critico di me stesso. Fintanto che non raggiungo il risultato che mi ero prefisso nella mente, non pongo quella firma che suggella la fine di un lavoro e la sua conseguente visibilità”.
Il suo fare versatile e polimaterico, ripropone in chiave originale e modernista un concetto informale di superamento della superficie bidimensionale attraverso le sue pitture “volumetriche”.
“Trovare la composizione che esprime ciò che voglio dire, è per me cosa facile e naturale. Il difficile viene dopo. Quando devo studiare come stabilizzare le mie idee materiche su un supporto piano”.
Le sue opere sono un luogo geometrico di numeri e di materie, in cui si definisce una nuova grammatica del numero. L’autore reinterpreta la cifra, non per ciò che obbliga a dire, ma per ciò che permette di dire e l’effetto si esalta nella sorpresa di una possibile combinazione, potenziata da colori e forme per riflettere su alcune tematiche esistenziali. Lo stile è quello del linguaggio autarchico che attinge alla mitologia dell’autore. “La mia vita è stata principalmente governata dai numeri. A loro mi sono dovuto affidare tutte le volte che dovevo aver certezze sulla bontà del mio lavoro. Numeri, algoritmi e congegni elettronici sono stati i miei principali compagni di lavoro. Con loro ho dato forma e consistenza a strutture di ogni tipo servendomi del mattone e del legno, del cemento armato e dell’acciaio. Con loro ho spesso consolidato e ringiovanito le vecchie e stanche membrature della mia città. Di loro mi sono servito per insegnare qualcosa ai miei studenti ed a loro mi sono dovuto affidare per valutarne le capacità e l’impegno”.
L’artista è arrivato a questi “quadri” per un bisogno interno che non si poteva estrinsecare in un dipinto classico, per altro abbastanza lontano dalla sua mentalità, ma in un’opera dove i materiali che la costituiscono diventano la parte più importante ed innovativa.
“Mi piace usare il colore in modo massiccio e plastico. Spesso ricorro a prodotti naturali come l’ocra proveniente dalle cave di Roussillon o l’indaco acquistato in qualche mercato del medio Oriente, altre volte mi affido a quello ancor più naturale della terra o della sabbia. La terra rossa dei campi da tennis, la sabbia proveniente dai più svariati posti del mondo, dal Sahara alle barriere coralline, dal vicino Tirreno ai vulcani dell’Islanda”. Per certi versi l’autore si ricollega al filone dell’arte povera e concettuale per l’uso disinvolto di materiali diversissimi da quelli tradizionali, ma lo fa con aspetti peculiari ed intimisti essendo la sua tematica, alla fine, non riconducibile alle teorie che hanno dato origine a tale movimento.
“Amo dar nuova vita agli oggetti vecchi ed esausti. Cose che sono servite in passato e che ora giacciono dimenticate in qualche angolo remoto di una casa o di un ufficio. Il più delle volte queste cose hanno una storia, a volte vera, a volte immaginaria. Quando le vedo o le prendo in mano, è come se mi raccontassero qualcosa di loro. E’ proprio quel “qualcosa” a cui cerco di dare una forma ed un contenuto, lasciando comunque questi oggetti come soggetti principali della narrazione”.