Racconta di se stesso

Il logologo-con-numeri

Molti mi chiedono del logo che da sempre mi accompagna, quel profilo con cappellino e sigaretta in bocca che qui sopra vedete circondato da una corona di numeri. Quel logo è un regalo di questo signore qui sotto di cui, purtroppo, non conosco neppure il nome.

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Era un giorno particolare perché il calendario segnava: 01 gennaio 2000. In pratica, era il primo giorno del “Terzo Millennio”. Quel pomeriggio passeggiavo per il Bund di Shanghai ancora stordito dai festeggiamenti della sera precedente. Stordito e distratto, tanto che non mi ero accorto di questo signore che mi seguiva sforbiciando velocemente un piccolo foglio di carta nera lucida. Quella stessa carta che usavo da bambino per i collage che mi davano da fare a scuola.

Poco dopo, visto che la mia attenzione era più attratta dallo skyline sull’altra riva dello Huangpu che da lui, mi richiamò ad osservazioni più vicine bussandomi delicatamente sulla spalla e mostrandomi il prodotto finale del suo sforbiciare.

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Rimasi stupito da tanta originalità, spirito d’osservazione e manualità. Purtroppo io parlavo in inglese, lui nel suo mandarino e riuscimmo solo a manifestare la nostra reciproca simpatia con una serie di inchini a mani giunte. Ci salutammo, io con una bustina contenente quei pochi centimetri quadri di carta nera che mi ritraevano in un momento di distratta e svagata spensieratezza, lui con qualcuno dei miei Yuan. Per lui erano più che sufficienti. Col tempo ebbi però modo di considerare che se ne meritava anche di più. Oltre tutto, solo al ritorno dal viaggio mi accorsi che il mio amico, avendo ripiegato il foglio di carta su se stesso, di ritratti me ne aveva sagomati contemporaneamente due speculari tra di loro.

Quella sagoma, non più alta di 5 centimetri, fu poi scannerizzata e rielaborata per diventare il simbolo del mio modo di fare arte.

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La tazzina di caffé

Tazzina-di-caffè-1La tazzina di caffè. Quella che da sempre mi da il buongiorno appena alzato, quella che intervalla le mie giornate con qualche pausa ristoratrice. Quel nero infuso caldo così aromatico e persistente che ti riempie la bocca e ti scalda il cervello. In fatto di caffè, sono molto esigente. Non sono un amante della moka, sia a casa che fuori preferisco di gran lunga quello più cremoso che scende dalla macchina da bar.

Durante l’ultima esposizione a Villa Bottini, un pomeriggio ebbi a riflettere sul fatto che tre delle mie opere là esposte nella penultima sala, casualmente una accanto all’altra, avevano a che fare, in qualche modo, con una tazzina di caffè.

Appeso al centro della parete: “Fuga consapevole”. Era stata proprio la tazzina di caffè che, rovesciando il suo contenuto sulla calcolatrice, me l’aveva resa inservibile ed aveva originato, a distanza di qualche anno, l’idea per quella composizione così cervellotica.

Sulla destra: “La memoria perduta”. Qui la tazzina di caffè, pur non essendo protagonista, era stata testimone incidentale dell’evento. Quel pomeriggio lavoravo al computer da diverse ore, e fu proprio il desiderio di riprendere fiato con una tazzina di caffè che mi fece salire al piano superiore dello studio. Quell’attimo di sosta fu però letale per l’hard-disk del computer il quale, abbandonato per pochi minuti, decise di abbandonarmi per sempre. Quella tazzina di caffè si raffreddò sulla mia scrivania e non fu mai assaporata. Giornata di lavoro persa, idea di un nuovo quadro trovata. Pareggio: 1 a 1 tra iella e fortuna.

Ed infine, poco più in là a sinistra e per la prima volta esposto in posizione orizzontale: “Perché proprio a me”. La possibilità di realizzarlo la devo proprio ad una tazzina di caffè. Avevo pensato a quella composizione nei minimi dettagli. I bozzetti erano pronti e l’idea più significativa, il fatto che poi avrei chiamato i miei nipoti per scegliere casualmente il cerino da bruciare, era chiara ed essenziale. Tutto era pronto e decisi, quindi, di andare a comprare i cerini. Brutta sorpresa. Il primo tabaccaio si mise a ridere chiarendomi che l’ultima scatola di quei cerini che avevo in mente l’aveva vista non meno di dieci anni prima. Che il cerino era considerato pericoloso e che ne era stata proibita la produzione. Setacciai tutta Lucca invano ed alla fine rinunciai a quella realizzazione che avevo in mente e che si poteva realizzare solo con i cerini. Anche perché, di cerini me ne occorreva più di mille e non poteva essere sufficiente il centinaio contenuto nell’eventuale fortuito ritrovamento di una scatoletta nel cassetto di qualche vecchio fumatore. Ma la fortuna e la mia voglia di caffè, quella volta, mi aiutarono. Era la metà di un pomeriggio d’inverno. Giravo per lavoro e decisi di fermarmi in un vecchio bar di campagna per un caffè rifocillante. Mentre il barista dava soddisfazione alla mia richiesta, distrattamente notai una di quelle vecchie scatolette di cerini nel ripiano alle sue spalle. “Ha solo quella?” fu la mia domanda con l’indice puntato inequivocabilmente verso l’oggetto delle mie affannose ricerche passate. “No, di là nel retro ne ho quante ne vuole” fu la sua risposta. Ho ancor oggi in bocca il sapore di quel caffè, anche se non aveva nulla di eccezionale, come nell’attimo in cui uscii da quel bar stringendo una busta di carta bianca contenente duecento scatolette di cerini. Quella sera stessa, trapano alle mani, iniziai a preparare la base del “Perché proprio a me”.

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Tanzania: piantagione di caffè all’interno dell’Arusha Coffee Lodge